Considerate credibili e, pertanto, accettate le dichiarazioni rese in sede di audizione per aver descritto in maniera vivida il racconto, raccontando nei dettagli ed in modo internamente coerente, le esperienze vissute con particolare riferimento al tipo di maltrattamenti subiti, alle imitazioni di movimento, alla scarsa fiducia nelle autorità competenti e alle vessazioni psicologiche e fisiche subite durante gli anni trascorsi con l’uomo che aveva sposato. La C.T. di Salerno – sez. Napoli ha, quindi, riscontrato con le COI sul Paese (Sri Lanka) che la violenza sulle donne (specie in ambito domestico) è dilagante e che manca tutela statale, poiché le Autorità statali “non possono o non vogliono fornire protezione” (art.5, lett. c, d.lgs. 251/07) in quanto considerano tale fenomeno come afferente all’ambito privato “che va risolta tra i coniugi”. Ed ancora, dalle verifiche istruttorie emergeva che lo Stato di provenienza non è dotato di meccanismi di protezione e fuoriuscita da situazioni di violenza di genere, viceversa sono stati riscontrati “stereotipi di genere”, che tendono a considerare le donne come corresponsabili e non come vittime di abusi. Un rientro nello Sri Lanka esporrebbe la richiedente al pericolo delle denunciate persecuzioni (gender based), senza la protezione delle Autorità, avendo le fonti segnalato che “lo stato srilankese non fornisce adeguata protezione alle vittime di violenza domestica” per effetto dell’assenza di strumenti normativi efficaci, nonché per un diffuso atteggiamento di scetticismo e di inerzia delle Autorità Giudiziarie e di polizia, che non registrano le denunce sporte, non procedono ad accurate indagini e non combinano condanne adeguate (art.6, co.2, d.lgs. 251/07), così costringendo alla marginalizzazione ed allo stigma sociale le donne vittime di violenza, che vengono disincentivate alla richiesta di tutela, registrandosi poche denunce in contrasto con l’alto numero di casi di donne vittime.
Decisivi sono stati la raggiunta consapevolezza della propria condizione di vittima di violenza e l’orientamento della richiedente sulla necessità di far emergere (fin dall’audizione in Commissione) i motivi e le ragioni della fuga. Tanto ha consentito di accertare già in sede amministrativa la fondatezza del timore di persecuzioni rilevanti ai sensi dell’art. 1 Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di rifugiato per l’appartenenza della richiedente ad una determinata categoria sociale in relazione al genere femminile, vicenda tale da poter essere qualificata come forma di violenza domestica ai sensi della convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (cd. Convenzione di Istambul del 2011), che, all’art. 3, lett. b, definisce la «violenza domestica» come «tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima»
Il caso è stato affrontato e risolto con l’Abogada Carla Garcia Vilar